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LIFESTYLE

La classica delle foglie morte

La corsa arriva con i primi veri brividi dell’anno. Il Giro di Lombardia nacque nel 1905 come Milano-Milano e già nel 1907 prese il nome con cui lo conosciamo ancora oggi. Chiude la stagione europea, e gli italiani lo chiamano la Classica delle Foglie Morte. Non è un titolo enfatico, è semplicemente la realtà. Le strade si scuriscono sotto l’ombra umida dei castagni, il lago riflette una luce più fredda, e la corsa sembra muoversi dentro il clima, non contro di esso.

La storia qui non grida, si raccoglie. Lo fa sulla salita al Santuario della Madonna del Ghisallo, sopra il lago, dove una piccola cappella custodisce una fiamma eterna e una stanza di memorie. Nel 1949 papa Pio XII proclamò la Madonna del Ghisallo patrona dei ciclisti. La cappella divenne luogo di ritorno: vecchie maglie scolorite, telai appesi come ex voto, fotografie in bianco e nero che scrutano i corridori ancora ansimanti. Non è un museo di trionfi, ma di perseveranza, e per questo incarna lo spirito di questa corsa.

Nomi e date si intrecciano naturalmente con la strada. Fausto Coppi vinse cinque volte, quattro consecutive dal 1946 al 1949, una sequenza che ancora oggi sembra destino scritto. Eddy Merckx eguagliò quel record, con cinque successi tra il 1969 e il 1978, dimostrando come la corsa premi sia la gioventù sia il ritorno. Felice Gimondi trionfò nel 1966, portando eleganza e misura su un percorso che raramente perdona esitazioni. In tempi più recenti, Vincenzo Nibali ha deciso la corsa in discesa, con attacchi affilati nel 2015 e nel 2017. E Tadej Pogačar ha inciso la sua firma con tre vittorie consecutive dal 2021 al 2023, costruite su lunghi assoli e chiuse con il volto sereno davanti all’acqua di Como.

Il percorso cambia nel dettaglio, ma resta se stesso. Dagli anni Sessanta il traguardo si lega spesso a Como, con partenze e arrivi alternati a Bergamo, ma il lago rimane l’ancora silenziosa. Le salite celebri sono un rosario di fatica: il Ghisallo, con i suoi tornanti regolari e l’aprirsi improvviso del cielo in vetta; la Colma di Sormano, con l’opzione del famigerato Muro, introdotto negli anni Sessanta, troppo ripido per resistere allora ma reintrodotto nel 2012; e infine San Fermo della Battaglia, negli ultimi chilometri verso Como, breve ma corrosiva, da cui la discesa corre al lago come una frase verso il punto finale.

Gli episodi restano sospesi. Nel 1956 una pioggia gelida avvolse la corsa e l’arrivo sembrò girato al crepuscolo. Nel 1981 Giovanni Battaglin, svuotato da una stagione massacrante, arrivò a Como con compostezza, figlio di una generazione che trattava il monumento d’autunno come dovere e dono insieme. Nel 2010 Philippe Gilbert conquistò la prima di due vittorie consecutive e poi si sedette su un gradino del lago, ascoltando il ritmo del cuore che tornava calmo. Le edizioni moderne spesso si decidono sul Sormano e sulla capacità di scendere lucidi quando i nervi tremano: è così che Nibali nel 2015 e 2017 e Pogačar negli anni recenti sembrarono inevitabili una volta creato il vuoto.

La bellezza di Como non fa da cornice, è parte della corsa stessa. Il lago occupa la sua conca con una calma che rende i movimenti più limpidi. Le ville appaiono e scompaiono tra cipressi e muri di pietra. Il Duomo osserva con una pazienza che supera ogni gruppo in gara. Quando la corsa piomba in città, la luce cambia: c’è un lampo di rumore sulle transenne, una via stretta costruisce il proprio vento, e poi il traguardo arriva sul bordo dell’acqua. Il vincitore solleva la ruota anteriore o vi si piega sopra. L’applauso si allarga. Il blu del lago torna alle sue faccende.

I punti cardinali che il lettore può custodire sono questi: la prima edizione nel 1905. La consacrazione del Ghisallo ai ciclisti nel 1949. Il record di cinque vittorie condiviso da Coppi e Merckx. Il ritorno del Muro di Sormano nel 2012. La sequenza recente che porta il nome di Pogačar. Il ritmo dell’ultima salita a San Fermo e la scivolata verso il traguardo che accelera e poi lascia andare. E la consapevolezza che la corsa si corre mentre l’anno cede il passo ai mesi silenziosi, quando la luce si assottiglia e l’aria del lago porta con sé il profumo lieve di legna bruciata.

Il Giro di Lombardia è spesso definito l’ultimo monumento della stagione. A Como appare come qualcosa di più sobrio e al tempo stesso più duraturo: una conversazione tra lo sforzo e il luogo, una firma che si ripete ogni anno sull’acqua, che non trattiene mai un segno.